venerdì 8 giugno 2012

Susan Sontag e la non riproducibilità della fotografia

Susan Sontag scrisse:
«Ma essendo essa stessa in origine un oggetto stampato e liscio, una fotografia perde molto meno la sua essenza, nell’essere riprodotta in un libro, rispetto ad un dipinto».
(On Photography, 1977).

FALSO.

Non so che idea avesse in testa Susan Sontag di cosa sia un oggetto fotografico, ma questa sua affermazione è significativamente sbagliata. Madre di riflessioni profonde ed incontestabili, pensatrice di intuizioni fotografiche geniali, Sontag fallisce clamorosamente l’analisi su questo particolare punto.

Già le immagini fotografiche su carta hanno una loro struttura materica tridimensionale che ne fa oggetti intimamente diversi.
Giusto per restare nell’ambito delle stampe positive: albumina, carbone, platino, gelatina, Cibachrome, Polaroid…

Supporti primari in carta uso mano, rame argentato, cartoncino, pergamena, avorio, tessuto, ferro, vetro, alluminio, polimeri e resine…

Ed ancora, per restare nella sola carta: baritata, politenata, lucida, tela, seta, camoscio, millepunti, vetrificata, opaca, brillante…

Ritenere gli oggetti fotografici omologhi e strettamente bidimensionali è come ritenere indifferentemente riproducibili, senza raggiungere l’esasperazione tridimensionale che può assumere un dipinto ad olio, un affresco e un acquerello.

Quando Susan Sontag scrisse quelle parole non aveva certo presente dagherrotipia, ambrotipia, ferrotipia, ivorytype, orotone… e dimenticava persino la stupefacente varietà di oggetti cartacei che ancora caratterizzava in quegli anni l’industria fotografica.

Probabilmente considerava coincidere l’immagine fotografica con l’idea della stampina commerciale di allora. I processi antichi erano ormai scomparsi, ma non per questo cancellati dalla storia e dall’esistenza.
Oggi sono le stampine fotografiche ai sali d’argento ad essere ormai quasi scomparse in confronto al dominio assoluto dell’immagine digitale. Esse sono già divenute oggetto di collezionismo.

In conclusione, rivendico la verità di un’affermazione esattamente contrapposta a quella formulata da Susan Sontag:
«La fotografia analogica consiste in una varietà di processi ed oggetti fotografici, tra loro assolutamente diversi come presenza fisica, da risultare esattamente irriproducibile come lo sono gli affreschi e gli acquerelli».

Con buona pace anche dell’indimenticato grande Maestro di Fotografia, Ando Gilardi.

Le fotografie sono irriproducibili.


© 2012 by  gabriele chiesa

Le immagini che seguono sono riproduzioni di oggetti fotografici originali delle collezioni Chiesa - Gosio.
Sono state deliberatamente riquadrate in modo che non siano visibili margini e montaggio, così che resti evidente la loro NON riproducibilità effettiva.
Fotografia abissalmente diverse appaiono qui sostanzialmente omologhe.
L'identificazione dei processi è invce impossibile senza avere l'oggetto fotografico in mano.
A titolo di esempio, si veda qui COSA è un dagherrotipo:


Nel libro «Dagherrotipia, Ambrotipia, Ferrotipia - Positivi unici e processi antichi nel ritratto fotografico» si è invece perseguito il tentativo di rendere meglio identificabili i diversi processi, rappresentando gli oggetti fotografici completi di margini, montaggio, disassemblato ed eventualmente anche sotto diverse angolazioni.
Maggiori dettagli sull'identificazione dei processi sono reperibili nella presentazione del testo cliccando qui.



Albumina - Albumen
Ambrotipia - Ambrotype
Aristotipia - Aristotype
Stampa al sale da Calotipia - Calotype
Stampa al Carbone - Carbon Print

Crystotoleum

Cianotipia - Cianotype

Dagherrotipia - Daguerreotype

Eburneum

Avoriotipia americana - Ivorytype

Opalotipia - Opalotype

Orotone

Pannotipo - Pannotype

Stampa al Palladio - Palladium Print

Ferrotipia - Tintype
Maggiori dettagli sull'identificazione dei processi sono reperibili nella presentazione del testo cliccando qui.

mercoledì 29 febbraio 2012

Gomma bicromata o bicromatata?

I processi fotografici hanno storicamente assunto una denominazione in lingua italiana seguendo una logica che non corrisponde necessariamente a ciò che è grammaticalmente giusto e corretto. Non raramente i termini tecnici si formano attraverso percorsi che sfuggono alle regole grammaticali.
Quando una terminologia si afferma, si consolida e risulta condivisa, diviene elemento linguistico di riferimento.
Per esempio la formazione del termine "dagherrotipia" è discutibile: avrebbe potuto chiamarsi daguerreotipia.
Ciò non è stato.

Per la gomma bicromata, può accadere che il termine “bicromatata”, invalso in tempi recenti, possa affermarsi, come sta facendo, in modo indiscusso.
Ciò non comporta che si possa poi automaticamente stabilire che per decenni i maestri della gomma bicromata abbiano usato il termine sbagliato perché erano ignoranti (ignoravano infatti come DOVEVA essere chiamato il procedimento).

In lingua italiana un oggetto metallico trattato in bagno galvanico al cromo si dice “cromato”. Ciò che è trattato con bicromato o dicromato è ragionevole che venga definito come “bicromatato”.
Non intendo mettere in discussione la legittimità grammaticale e chimica della formazione del neologismo.
Tuttavia il processo fotografico di cui qui si discute, come praticato per decenni, è stato abitualmente definito in passato come "gomma bicromata", che piaccia o no.
Se è maturato il tempo per considerare ciò che per decenni è stato condiviso come una corbelleria a cui è doveroso porre rimedio, non sussistono riserve ammissibili: il linguaggio è cosa viva.

Quando iniziai ad occuparmi di storia della fotografia negli anni Settanta la dizione “gomma bicromata” era impiegata senza alcuna riserva nei manuali e nei testi di storia della fotografia. Cito, uno per tutti, “Storia sociale della fotografia” di Ando Gilardi.
Tra i libri storici che parlano di questo processo vanno citati, come catalogati dall’Archivio Fotografico Toscano:
Vanni, Piero . Il processo di stampa fotografica positiva alla gomma bicromata / Pietro Vanni. - 2. ed. riv. e completata dal prof. Rodolfo Namias. - Milano : Il progresso fotografico, 1923. - 62 p., [16] p. di tav. : ill. ; 25 cm
e
Namias, Rodolfo . I processi pigmentari di stampa fotografica: carbone-bromocarbone (carbro), gomma bicromata / Rodolfo Namias. - 3. ed. riv. / per cura dell'ing. Ferdinando Todeschini. - Milano : Il Progresso fotografico, 1931. - IV, 95 p., [16] p. di tav. : ill. ; 24 cm.
Curiosamente quest’ultimo è stato catalogato più recentemente col termine “bicromatata” nel titolo. Sarebbe interessante poter verificare la copertina originale.

Non intendo sollevare inutili questioni di legittimità grammaticale. Sulla correttezza del termine “bicromatata” non ho obiezioni. Mi risulta un po’ cacofonico, ma questa è una valutazione soggettiva senza alcun rilievo.
Il nocciolo del problema che pongo non è come dovrebbe essere correttamente chiamato il processo in ossequio alle regole grammaticali. Piuttosto intendo porre la questione dell’impiego storico del termine. Ciò che è ritenuto giusto e corretto in un’epoca può essere ritenuto inappropriato in un’altra. In ogni caso, nulla impedirà di comprendere il riferimento ad un identico processo fotografico, pur usando una terminologia ritenuta poco ortodossa.

Un aspetto ancora più importante da approfondire, piuttosto che quello terminologico, è quello della tutela della salute. Il bicromato o dicromato di potassio è un sale dalle spiccate proprietà ossidanti, estremamente tossico e cancerogeno per il suo contenuto di cromo esavalente. L'inalazione di composti di cromo esavalente può produrre danni immediati, ma la sua pericolosità, come per la maggioranza delle sostanze cancerogene, si osserva in conseguenze anche molto lontane del tempo. I soggetti vittime di tumori non riescono, a distanza di molti anni, a collegare la malattia con il remoto contatto avuto con le sostanze cancerogene. Ciò rende particolarmente insidioso l’uso di sostanze chimiche che furono largamente ed incautamente impiegate in passato in ambito fotografico. È documentato per questa sostanza particolare il legame con l’insorgenza di intossicazioni croniche e carcinomi (vie aeree superiori e polmoni).

Chi si appassiona ai processi fotografici antichi può essere preso dalla tentazione di tornare a sperimentarli senza considerare la necessità di predisporre adeguate precauzioni. Gli esperimenti avventati in ambito fotografico sono spesso potenzialmente nocivi e possono rivelarsi a lungo termine devastanti per lo stato fisico di chi li compie. Sfortunatamente l’impiego di cappe aspiranti e filtranti a chiusura ermetica è ancora quasi estraneo alla pratica amatoriale.

Nel libro «Dagherrotipia, Ambrotipia, Ferrotipia. Positivi unici e processi antichi nel ritratto fotografico», in corso di pubblicazione, ho svolto qualche considerazione in relazione all’impiego del mercurio in dagherrotipia.
Le sostanze usate per la sensibilizzazione e lo sviluppo dagherrotipico sono infatti particolarmente tossiche e la loro incauta manipolazione può produrre seri danni alla salute, come purtroppo sperimentarono direttamente i pionieri della dagherrotipia. Il mercurio una sostanza neurotossica, che ha elevati effetti dannosi anche su diversi organi vitali. Operare in presenza dei suoi vapori è estremamente pericoloso perché l’inalazione provoca accumulo nel sistema nervoso centrale, producendo alterazioni permanenti, anche mentali, che si osservano solo a distanza di tempo.
 I dagherrotipisti contemporanei più accorti effettuano infatti il trattamento delle lastre al vapore di mercurio in box a tenuta ermetica e cappa aspirante filtrata, non trascurando di indossare una mascherina con filtro antigas.

Un antico detto inglese, per definire che si comporta in modo eccessivamente stravagante, usa le parole “matto come un cappellaio”. Chi non si ricorda di quello di Alice nel Paese delle Meraviglie? I cappellai del XIX secolo usavano infatti composti di mercurio per la lavorazione del feltro e ciò aveva terribili permanenti conseguenze sul loro stato mentale. Visto il rischio professionale, si sarebbe forse indifferentemente potuto usare la sentenza “matto come un dagherrotipista”.

lunedì 27 febbraio 2012

Presentazione del libro «Dagherrotipia, Ambrotipia, Ferrotipia. Positivi unici e processi antichi nel ritratto fotografico»

La presentazione del libro «Dagherrotipia, Ambrotipia, Ferrotipia. Positivi unici e processi antichi nel ritratto fotografico» avrà luogo alle ore 18 di sabato 24 marzo a Brescia, presso ImageGallery, corso Garibaldi 16. Lo spazio è quello della sala corsi di ImageGallery che può accogliere 50 persone. Pertanto è gradito un cenno di prenotazione aderendo all’evento su Facebook.

Per condividere studi ed informazioni, per ricevere aggiornamenti e partecipare attivamente in modo cooperativo allo sviluppo della cultura storico-fotografica italiana, iscriviti al gruppo FaceBook Storia della Fotografia.

lunedì 20 febbraio 2012

Dagherrotipia, Ambrotipia, Ferrotipia. Positivi unici e processi antichi nel ritratto fotografico

Questo blog, dedicato alla storia della fotografia tra il 1830 ed il 1939 ed ai processi fotografici antichi, è rimasto finora un po’ trascurato. Nato come supporto alle ricerche condotte da Gabriele Chiesa (io me, medesimo stesso, in persona ;-)) e Paolo Gosio, l’obiettivo per cui era stato creato consisteva nella trattazione di singoli casi di studio e per  sviluppare approfondimenti su specifici argomenti.
Il libro a cui ci stavamo da anni dedicando ci ha però impegnato in modo veramente intenso, senza lasciare spazio per altre iniziative. A questo si sono aggiunti eventi ed urgenze di varia natura, attività di didattiche e produzioni culturali, sempre in ambito fotografico, come www.imageacademy.it.

È finalmente giunto il tempo di riprendere le fila di un discorso appena iniziato che finora è rimasto semplicemente uno di quei “buoni proponimenti” di cui si rinvia costantemente l’applicazione pratica.

L’apertura di questa nuova fase di impegno coincide con l’imminente uscita del libro:
«Dagherrotipia, Ambrotipia, Ferrotipia. Positivi unici e processi antichi nel ritratto fotografico»

La conferenza stampa per la presentazione di questa pubblicazione è stabilita per sabato 24 marzo 2012, ore 18, presso la sede di ImageAcademy, in Corso Garibaldi 16, Brescia.

Fotografo da quando ero adolescente, dagli anni Sessanta. Ho iniziato con una Kodak Retina II a soffietto di mio padre e poi con una Eura Ferrania per pellicola in rullo 6x6. La mia avventura nei territori della storia degli antichi processi fotografici è iniziata negli anni Settanta, quando ho iniziato a leggere i primi testi di storia della fotografia. «Storia Sociale della Fotografia» di Ando Gilardi, è stato un testo che in un certo senso “mi ha cambiato la vita”. Questa lettura ha ispirato il lavoro della mia tesi di laurea su “Uso e funzione sociale dell’album di famiglia”. A quel tempo avevo iniziato una modesta attività collezionistica, limitandomi all’acquisizione delle Carte de visite di antichi studi fotografici prevalentemente bresciani.
Poi inizia a pensare che sarebbe stato bello poter avere almeno UNA dagherrotipia, UNA ferrotipia, Un’ambrotipia. Desideravo poter tenere in mano un esemplare di questi antichi processi fotografici, almeno uno per tipo. Occasioni e coincidenze fortunate mi hanno poi portato a qualche fortunata acquisizione.

Il contatto con Paolo Gosio è nato quando già avevo iniziato a scrivere di storia e di antichi processi fotografici. Paolo si occupa di matrici, di stampa e di immagini da una vita. Per lui, giungere all’attenzione ed al collezionismo per i le più antiche immagini fotografiche a positivo unico è stato un percorso naturale. Il suo stimolo è stato fondamentale: è “colpa sua” :-) se nel 2009 abbiamo pubblicato un libricino di 90 pagine pretenziosamente intitolato «Il ritratto fotografico nell’Ottocento: dagherrotipia, ambrotipia, ferrotipia». Poi abbiamo capito che non potevamo fermarci. Negli anni avevamo accumulato un patrimonio fotografico che ritengo notevole. Avevamo a disposizione un straordinaria raccolta di rari oggetti fotografici, rappresentativi di rarissimi processi fotografici ormai sconosciuti persino alla maggioranza dei curatori di fondi fotografici storici. Così ci siamo incoscientemente lasciati trascinare in un’avventura di cui ancora fatichiamo a riconoscere i contorni. Ci siamo ritrovati a riscrivere e reinterpretare momenti e scoperte fondamentali della storia della fotografia. I risultati hanno sorpreso noi stessi per primi. Abbiamo sviluppato contenuti che comportano aspetti innovativi. Ci aspettiamo che chi si occupa di storia della fotografia per attività professionale non sia immediatamente disposto ad accettare senza discussione contributi non strettamente ortodossi, ma questo fa parte del gioco e del divertimento.

I numeri non servono per dare una misura della qualità, ma danno comunque un’idea delle proporzioni dell’impegno: 367 pagine in formato A4, quasi 900 illustrazioni. Tra le proposte originali che il testo contiene ci sono:
  • un sistema di classificazione dei profili di riquadri (mat) usati nelle confezioni  in astuccio (case)
  • un sistema di classificazione dei punzoni (hallmark) usati da produttori, importatori e dagherrotipisti
  • una tavola di identificazione hallmarks con 159 punzoni (The American Daguerreotype,  il testo che finora è adottato come riferimento dai curatori dei musei di tutto il mondo ne riporta 63)
  • la proposta di nuovi specifici termini tecnici in lingua italiana, in relazioni a elementi di confezione e montaggio degli oggetti fotografici antichi
  • un approfondimento storico sui formati fotografici
  • numerosi esempi illustrati di disassemblaggio
  • nuovi dettagli di informazione storica finora mai raccolti e coordinati in italiano, oltre ad alcune novità assolute
  • criteri di riconoscimento e identificazione relativi a procedimenti fotografici antichi finora soggetti ad ambiguità di varia origine

Il libro «Dagherrotipia, Ambrotipia, Ferrotipia. Positivi unici e processi antichi nel ritratto fotografico» sarà in vendita dalla fine marzo 2012. Qui saranno inseriti i link per procedere all’acquisto o scaricare l’ebook in formato digitale.

lunedì 16 maggio 2011

Sferotipia? Che roba è?

Nei libri di storia dei processi fotografici e sul web, nei siti di storia delle tecniche fotografiche, abbondano elenchi di tipologie fotografiche molto dettagliate.
Vi compaiono denominazioni decisamente peculiari e presso che sconosciute.

Compilare un elenco copiato da testi di riconosciuta autorità non è un
problema.
La questione è: che cavolo stai scrivendo (oppure , par altro verso,
vuoi farmi intendere)?
Le spiegazioni relative ai processi meno noti sono frettolose, superficiali e direi talvolta raffazzonate come frutto di intuizioni e/o indicazioni confusamente raccolte.

La realtà credo che consista nel semplice fatto che di alcuni processi non si sa in realtà praticamente nulla.
Talvolta chi si propone nel ruolo di "esperto" non ha nemmeno mai avuto modo di esaminare concretamente esemplari dei materiali di cui discute.

La SFEROTIPIA costituisce un esempio palese in riferimento a quanto sto considerando.
Chi può dire di averne avuta una in mano e di averla potuta esaminare?
Sul web ho trovato un solo ed isolateo cenno al fatto che si tratterebbe di una stampa per ingrandimento ottenuta co la proiezione attraverso un vetro sferico.
Si potrebbe obiettare che, dal momento che qualche descrizione riferisce di stampe al collodio ottenute per proiezione attraverso una sfera, non ne è rilevabile la specificità nel prodotto fotografico.
Se ci si riflette un po'... non si può ricavare nessuna immagine ragionevolmente leggibile, proiettando una figura su un supporto fotosensibile attraverso una "sfera di cristallo" (o vetro che sia) :-).
Non mi risultano reperibili risorse iconografiche relative a questo processo.
Provo a dire cosa penso: nessuno sa cosa è realmente una sferotipia.
Chi vuole divertirsi provi a cercare sul web "spherotype" ... ;-)

Personalmente ho imparato che un ottimo ed indiscutibile metodo di identificazione degli antichi processi fotografici è ritrovare un oggetto con timbro originale d'epoca che "dice cosa è".
Questa fortuna non mi è ancora personalmente accaduta con il processo SPHEROTYPE e dunque posso solo proporre ipotesi su due esemplari che posseggo e che "potrebbero essere".
Di certo non assomigliano a null'altro che abbia mai potuto vedere, nonostante abbia esaminato direttamente oggetti fotografici in numero e varietà che definirei enorme.
Oltre trent’anni fa mi sembra di avere visto una sferotipia con stampigliato appunto "sferotipia" e lo studio fotografico a casa di una signora allora ottantenne. Non avevo con me una fotocamera e non sottrassi il pezzo, sebbene me ne fosse venuta la tentazione ;-)
Dunque posseggo ora due soli esemplari di probabili sferotipi.
Ciascuno è realizzato con una coppia di vetri sottili, accentuatamente bombati,
e sigillati tra loro.
Il formato è praticamente il CDV e il procedimento appare molto simile alla ivorytype americana.
Il mio problema è ora: con che coraggio apro questi due pezzi?
D’altra parte mi dovrò prima o poi decidere, altrimenti non potrò mai studiare il procedimento a fondo.

La mia sfida è dunque al momento: cerchiamo insieme di identificare correttamente i processi fotografici di cui si è persa memoria? Ce ne sono diversi altri, misteriosi ed attraenti… per esempio il pannotipo.
Sul pannotype ho però ormai raggiunto una discreta competenza per esperienza diretta di osservazione.

Dunque propongo di iniziare una discussione proprio partendo dal procedimento per me più misterioso: la sferotipia o spherotype.

Per una storia della fotografia italiana

Tutto sembra già stato detto e scritto, per il solo fatto che un paio di libri di storia della fotografia italiani riportano il medesimo racconto. Prestigiosi nomi di antichi studiosi italiani, a partire dal Rinascimento, vengono uniti a quello di Giovanni Antonio Canal (Canaletto), fino a giungere ai primi sperimentatori italiani della dagherrotipia. Piero Becchetti ha realizzato il primo documentato
elenco degli antichi studi fotografici italiani. Tutto qui.

Le poche pubblicazioni successive hanno offerto, a mio parere, scarsi motivi di approfondimento, richiamando abbondantemente quanto già scritto, oppure valorizzando prevalentemente aspetti estetici e iconografici con abbondanza di illustrazioni.

Isolati tentativi di approfondimento sono stati e vengono condotti da appassionati studiosi in ambito regionale, come l’amico Pierluigi Manzone.

Mi sembra invece che manchi una seria analisi delle specificità tecniche, dei processi adottati e delle migliorie apportate dai pionieri fotografi italiani, delle loro singole caratteristiche espressive e di ambito operativo… insomma di tutte quelle peculiarità che caratterizzano lo sviluppo nazionale di un’arte che non sia considerato semplicemente come successioni di anni d’attività e
indirizzo e numero civico degli studi.

Insomma, a me sembra che ci sia ancora tanto da cercare, osservare, confrontare, condividere…
Comprendo la riservatezza di chi ha investito tempo e risorse per raccogliere anche solo pochi riferimenti locali e non intende regalare i suoi sforzi, disperdendoli al vento dell’anonimato che tende a caratterizzare il web. La mia idea è che il momento della divulgazione collaborativa vada costruito DOPO la pubblicazione formale su carta (libri, riviste… ) dei risultati personali raggiunti, in modo da non mettere in discussione il valore dei singoli contributi individuali.
Questo spazio potrebbe rappresentare proprio questo DOPO, necessario per correlare ed eventualmente coordinare successivi approfondimenti.

Ciò diviene tanto più necessario in seguito alla chiusura degli spazi rappresentati da periodici come "AFT. Rivista di storia e fotografia" e del supplemento "Quaderni di AFT". La sospensione di queste pubblicazioni dovrebbe indurre in qualche considerazione sull’editoria cartacea tradizionale. Ritengo che sia ragionevole ipotizzare nuove forme di informazione e pubblicazione sul web, attraverso tecnologie editoriali e scelte di diffusione appropriate (editoria elettronica PDF con gestione DRM).

Attivato il gruppo di discussione "Storia della Fotografia" su Google Gruppi

In Google Gruppi è ora disponibile una nuova opportunità di cooperazione e discussione per gli appassionati e gli studiosi di storia delle antiche tecniche fotografiche.
L'idea di base è quella di proporre qui uno spazio di condivisione e ricerca relativo allo sviluppo storico dei processi fotografici e all'evoluzione delle tecnologie dell'immagine, con la necessaria attenzione alle implicazioni di carattere culturale e sociale.

Questo gruppo nasce con l'ambizione di fornire un contributo, per quanto modesto, alla valorizzazione del patrimonio fotografico storico italiano.

Mi rendo conto che il richiamo alla cooperazione in questo particolare settore della storia delle tecniche di comunicazione visuale presenta elementi di criticità.

La riservatezza e la difesa di informazioni e competenze ha caratterizzato l'invenzione della fotografia fino dai primissimi inizi delle sperimentazioni pionieristiche.
Chi è in possesso di dati, notizie ed elementi di osservazione ed intervento, nel campo dell'acquisizione, della catalogazione e del restauro, ma anche spesso in quello della valorizzazione, tende comprensibilmente a difendere la propria posizione privilegiata.
Tuttavia, anche in questo settore, se siamo in due a sapere una cosa e la condividiamo, alla fine, saremo in due a saperne due.

Seminari e corsi di formazione non mancano. Sfortunatamente i costi di accesso sono decisamente poco popolari e francamente, mi scuso anticipatamente con chi vorrà considerarmi sfrontato... non sempre qualitativamente validi e concretamente produttivi.
Talvolta ho la sensazione che vengano condotti da esperti che parlano di oggetti con cui hanno poca dimestichezza diretta e che hanno potuto studiare solo sui libri o conoscere in occasione di costosi seminari.

Con questo non mi sottraggo dall’ammettere l’eccesso di gelosia per gli oggetti delle mie attenzioni collezionistiche :-) ;-)
… ma a un certo punto dovremo pure iniziare.
In fondo la fotografia è nata grazie alle confidenze aperte di Herschel piuttosto che dai segreti di Niépce.