giovedì 3 gennaio 2013

Carte de Visite di apertura Album

Il fenomeno della “Cardomania” che furoreggiò tra la fine dell’Ottofcento e l’inizio dell’Ottocento decretò il successo del formato Carte de Visite come strumento di identificazione e riconoscimento sociale della borghesia e della classe media benestante in epoca Vittoriana.
Del meccanismo di scambio che consentiva di raccogliere negli album la collezione dei ritratti di parenti, amici e conoscenti, ho già scritto nel precedente articolo sulle carte de visite.

All’acquisto, l’album si presentava, come ovvio, completamente spoglio. Naturalmente si poteva direttamente iniziare a popolarlo con le CdV di cui già ci si disponeva.
Tuttavia la sua funzione sociale ed uso consueto era quello di costituire una sorta di gioco che consentiva di vivacizzare gli incontri con gli ospiti che si ricevevano nel “salotto buono”.
Mancando le opportunità tecnologiche attuali, per animare serate e visite per prendere il the non rimanevano che poche alternative. Tra queste, si potevano intrattenere gli ospiti con almeno due generi di passatempi fotografici: la visione di vedute stereoscopiche e la visione dell’album fotografico.
In questo secondo caso, iniziava l’indovinello del “chi conosce chi” e le pagine venivano sfogliate come occasione di commenti e persino di pettegolezzi. Ciò era ovviamente occasione di delizia per le signore chiamate a condividere la complicità di questo genere di lettura fotografica.

La visione dell’album da parte degli ospiti implicava una sorta di impegno sottointeso che richiedeva il reciproco scambio di carte de visite; gesto che permetteva l’ulteriore sviluppo del gioco ed il completamento dell’album.
Per rendere più esplicita questa richiesta, in ambiente anglosassone, non era raro predisporre una CdV di apertura proprio nella prima pagina. Queste immagini riportano solitamente un breve brano in rima che invita il visitatore a partecipare attivamente al completamento dell’album con il dono della propria carte de visite, promettendo in contraccambio l’identico favore d’amicizia.
Le poesie di queste CdV di apertura sono a tutti gli effetti delle fotografie, spesso decorate da volute floreali, oppure anche da miniature multiple che possono rappresentare luoghi, bambini, fiori, fanciulle, scene di genere e pittoresche.
Quest’uso è praticamente assente in ambiente italiano, dal momento che questa tipologia di oggetto fotografico aveva un costo non trascurabile ed il consumo fotografico italiano rimase a lungo meno ricco di quello francese ed inglese. La struttura sociale italiana fu infatti caratterizzata da un’economia povera e prevalentemente agricola: la rivoluzione industriale produsse i suoi effetti solo a partire da inizio novecento.

Nell’album potevano anche essere inserite CdV di personalità politiche, del mondo dell’arte, dello spettacolo, della nobiltà, della politica oltre naturalmente ed in bella evidenza, le CdV della Famiglia Reale. L’esibizione di queste immagini, che si potevano acquistare presso i fotografi che le stampavano in serie, può fornire utili indicazioni sui valori condivisi tra gli appartenenti alle classi benestanti.
Negli album italiani è interessante notare che in alcuni album vengono poste in evidenza le immagini del re della regina e dei principi, mentre in altri sono esibiti i ritratti di Garibaldi e persino di Mazzini.

Si comprende dunque che esisteva un mercato per Cdv di apertura, riempimento e persino chiusura.

I brani in rima di apertura più ricorrenti sono di due tipi: “Quiz” e “Should Auld Acquaintance

Carte de Visite di apertura album

Ecco, qui di seguito, il testo
scritto su questa CdV di apertura album:

Should Auld Acquaintance
Be Forgot
And never Brought to mind?
While I've an Album to contain
The friends of "Auld Lang Syne".
Then gie's ye're "carte"
My trusty Friend
And here's a "carte" o' mine.
We'll fill our Albums to the end
Wi' the friends
Of Auld Lang Syne.


Carte de Visite, verso.

Questa è una CdV che racconta qualcosa di sé con una nota sul dorso…

Il testo di “Should Auld Acquaintance” si rifà ad una canzone tradizionale Scozzese, spesso cantata per celebrare l’inizio di un nuovo anno.
"Auld Lang Syne" è in italiano il "Valzer delle Candele".
Eccone una spendida esecuzione, in linga originale, in questo clip video…



Ecco un'altra CdV inglese di apertura.
Chi veniva accolto in visita presso una famiglia benestante di fine ottocento, veniva regolarmente invitato a sfogliare l'abum di famiglia. Ciò permetteva di stabilire legami culturali e riconoscimento di valori comuni. In questo modo la famiglia esprimeva il suo profilo sociale, economico, politico, religio, attraverso l'esibizione della scelta di CdV che esibiva. Le CdV potevano, ad esmepio, includere i ritratti della Famiglia Reale, riproduzioni d'arte e paesaggi. Allo stesso tempo si esponevano i dettagli e la qualità dell'abbigliamento e delle acconciature, attraverso la posa dei componenti della famiglia.
Chiunque apriva la raccolta delle imamgini, era chiamato esplicitamente ad aggiungere un altro volto, affincheè altri potessero unirsi al gioco del riconoscimento.


Ecco i versi che questa CdV declamava:

WHOEVER OPENS THIS TO SEE
ANOTHERS FACE WITHIN
MUST NOT FORGET HIS OWN
TO PLACE
FOR HAVING QUIZZ.D
AT HIM.

ALL THAT'S ASK'D
OF THOSE WHO LOOK
AT THE CONTENTS OF THIS BOOK
BY ITS RIGHT & LAWFULL OWNER
IS THAT EACH BECOME A DONER.

Carte de visite

Le fotografie formato carte de visite (carte-de-visite abbreviato come CdV o CDV) costituiscono una sorta di biglietto da visita fotografico che godette di enorme popolarità tra la fine dell’Ottocento ed i primi del Novecento.

Il successo di questo genere ritrattistico si fondò sulla novità e la convenienza di un prodotto fotografico nuovo, in grado di assolvere la funzione di strumento di identificazione e riconoscimento sociale. La borghesia in ascesa vi trovò una efficace soluzione al desiderio di autocelebrazione ed affermazione degli attributi di classe e della personalità individuale.

Le dimensioni normali di una carte de visite sono di circa 54.0 mm (2.125 in) × 89 mm (3.5 in) per l’immagine fotografica stampata su carta compatta e sottile. Questo supporto primario veniva montato, solitamente a caldo, su un cartoncino piuttosto consistente di 64 mm (2.5 in) × 100 mm (4 in). Il positivo è di norma stampato su carta all’albume. Gli esemplari più antichi possono essere stati realizzati su carta salata. Le CdV più tarde sono realizzate con processi al collodio, aristotipia o altri procedimenti, talvolta anche tecnicamente raffinati e rari. Non raramente la CdV veniva tinta a mano.

Il fotografo parigino André-Adolphe-Eugène Disdéri (Parigi, 28 marzo 1819 - 4 ottobre 1889) brevettò nel 1854 il metodo per ottenere otto diversi negativi su una sola lastra. Ciò determinò il formato che caratterizza le Cdv e che ne rese possibile il successo anche grazie alla riduzione dei costi di produzione. Il negativo poteva essere stampato per contatto e la produzione delle copie era quindi particolarmente conveniente.

Il formato tardò ad affermarsi nei primissimi anni, fino al giorno in cui l’imperatore Napoleone III fece fermare le truppe in partenza per la campagna d’Italia (II guerra d’Indipendenza Italiana) al n.8 del Boulevard des Italiens per farsi ritrarre da Disdéri. L’episodio è riposrtato nelle memorie del fotografo Nadar, pseudonimo con cui è conosciuto Gaspard-Félix Tournachon (Parigi, 6 aprile 1820 - 21 marzo 1910). L’intento era forse quello di promuovere e celebrare l’immagine dell’imperatore, diffondendone la conoscenza dell’aspetto fisico tra tutto il popolo, le truppe e gli Alleati. Disdéri vendeva le copie dei personaggi più famosi del suo tempo e che egli accoglieva volentieri nel suo studio. Farsi ritrarre da questo fotografo significava la consacrazione del proprio successo finanziario, artistico o politico.

Così tutti coloro che potevano permetterselo vollero farsi fotografare in Cdv, donando poi ad amici, conoscenti ed estimatori, copia del proprio ritratto. Il successo del formato carte de visite dilagò innescando il meccanismo di reazione a catena che stava alla sua base: io regalo la mia CdV a te, tu regali la tua CdV a me. In questo modo si costituivano con una discreta rapidità le grandi raccolte di carte de visite che implicarono l’affermazione di appositi album fotografici a finestre. In questi contenitori venivano riuniti i ritratti di familiari, amici e conoscenti, divenendo così una sorta di “atlante familiare” che permetteva il riconoscimento reciproco di legami, ruoli, aspettative e identificazioni sociali.

Album Carte de Visite da tasca, a portafoglio.

La “Cardomania” divenne un autentico fenomeno tra la borghesia ed i benestanti, iniziando dall’Europa, per poi diffondersi in America. Il piccolo formato CdV, che fu alla base del successo di questo genere ritrattistico e degli imponenti album fotografici, caratteristici dell’epoca Vittoriana, fu anche motivo della sua progressiva scomparsa.

© 2013 by Gabriele Chiesa


Album per Carte de Visite a finestre con decorazioni colorate in cromolitografia.


mercoledì 4 luglio 2012

Sistema di fotografia automatica BOSCO: Conrad Bernitt, 1890

Autoritratto di gruppo eseguito in chiosco
fotografico BOSCO, anno circa 1892,
Hamburg, DE. Misure: 61 x 84 x 2 mm.
La storiografia fotografica corrente accredita l’invenzione della ripresa automatica come scoperta americana. La denominazione “photobooth” identifica questa tipologia di immagini che non sono altro che autoscatti eseguiti in un chiosco a trattamento automatizzato, solitamente installato in fiere o luoghi di grande afflusso turistico: località di villeggiatura e centri termali.

Come già accaduto per l’invenzione del telefono, in America si tende a privilegiare l’aspetto dell’affermazione commerciale su larga scala, attribuendo la priorità delle invenzioni a chi ne ottenne la definitiva affermazione, piuttosto che agli autentici precursori. La realtà dei fatti è che i primi chioschi fotografici non furono i Photomaton installati a Broadway da Anatol M. Josephewitz (Josepho) nel 1925, ma i BOSCO dell’amburghese Conrad Bernitt. Le cabine fotografiche automatiche BOSCO entrarono in funzione quasi mezzo secolo prima del sistema Photomaton!

Al sistema BOSCO di Conrad Bernitt, con ulteriori spiegazioni di approfondimento ed un consistente corredo iconografico, è dedicata un’intera sezione (pagine 177-180) del libro «Dagherrotipia, Ambrotipia, Ferrotipia Positivi unici e processi antichi nel ritratto fotografico».

Il prodotto fotografico è un positivo unico diretto, esattamente come accade per la dagherrotipia o l’ambrotipia ed è assimilabile alla ferrotipia come qualità e tipologia di trattamento.

Dorso di lastra fotografica a vaschetta BOSCO
Serigrafia su vernice dorata, anno circa 1892.
La ripresa fotografica avviene in cabina e ciò rappresenta l’inizio di una nuova epoca per la fotografia, svincolata dal rituale dello studio fotografico. Da questo momento inizia l’epoca delle istantanee autogestite e trasgressive, manifestazione di sentimenti ed orgoglio popolare, testimonianza di affermazione sociale delle classi marginali.

Il chiosco fotografico diverrà, fino alla seconda metà del Novecento, il luogo di autorappresentazione degli strati sociali meno abbienti e, particolarmente negli Stati Uniti, delle etnie latine, afroamericane, nordafricane, ispaniche, asiatiche. La lastrina esposta, una volta effettuata la ripresa, subisce un trattamento automatico all’interno di un meccanismo in cui viene posta in posizione orizzontale. La sua forma è quella di una vaschetta a bordi rialzati, in ferro rivestito con vernice brillante color oro, in grado di resistere al trattamento ed all’ossidazione. Grazie alla sua sagoma, può accogliere il piccolo quantitativo di chimici che servono per il processo. L’immagine viene restituita in tre minuti e l’asciugatura è piuttosto rapida. Le istruzioni raccomandavano ovviamente di non toccare la superficie fino a completa asciugatura.

Le due illustrazioni di questo articolo provengono da uno degli esemplari delle collezioni Chiesa – Gosio. Si tratta di uno dei primissimi pezzi prodotti con il sistema BOSCO. Esemplari successivi presentano modifiche nelle iscrizioni in serigrafia.

venerdì 8 giugno 2012

Susan Sontag e la non riproducibilità della fotografia

Susan Sontag scrisse:
«Ma essendo essa stessa in origine un oggetto stampato e liscio, una fotografia perde molto meno la sua essenza, nell’essere riprodotta in un libro, rispetto ad un dipinto».
(On Photography, 1977).

FALSO.

Non so che idea avesse in testa Susan Sontag di cosa sia un oggetto fotografico, ma questa sua affermazione è significativamente sbagliata. Madre di riflessioni profonde ed incontestabili, pensatrice di intuizioni fotografiche geniali, Sontag fallisce clamorosamente l’analisi su questo particolare punto.

Già le immagini fotografiche su carta hanno una loro struttura materica tridimensionale che ne fa oggetti intimamente diversi.
Giusto per restare nell’ambito delle stampe positive: albumina, carbone, platino, gelatina, Cibachrome, Polaroid…

Supporti primari in carta uso mano, rame argentato, cartoncino, pergamena, avorio, tessuto, ferro, vetro, alluminio, polimeri e resine…

Ed ancora, per restare nella sola carta: baritata, politenata, lucida, tela, seta, camoscio, millepunti, vetrificata, opaca, brillante…

Ritenere gli oggetti fotografici omologhi e strettamente bidimensionali è come ritenere indifferentemente riproducibili, senza raggiungere l’esasperazione tridimensionale che può assumere un dipinto ad olio, un affresco e un acquerello.

Quando Susan Sontag scrisse quelle parole non aveva certo presente dagherrotipia, ambrotipia, ferrotipia, ivorytype, orotone… e dimenticava persino la stupefacente varietà di oggetti cartacei che ancora caratterizzava in quegli anni l’industria fotografica.

Probabilmente considerava coincidere l’immagine fotografica con l’idea della stampina commerciale di allora. I processi antichi erano ormai scomparsi, ma non per questo cancellati dalla storia e dall’esistenza.
Oggi sono le stampine fotografiche ai sali d’argento ad essere ormai quasi scomparse in confronto al dominio assoluto dell’immagine digitale. Esse sono già divenute oggetto di collezionismo.

In conclusione, rivendico la verità di un’affermazione esattamente contrapposta a quella formulata da Susan Sontag:
«La fotografia analogica consiste in una varietà di processi ed oggetti fotografici, tra loro assolutamente diversi come presenza fisica, da risultare esattamente irriproducibile come lo sono gli affreschi e gli acquerelli».

Con buona pace anche dell’indimenticato grande Maestro di Fotografia, Ando Gilardi.

Le fotografie sono irriproducibili.


© 2012 by  gabriele chiesa

Le immagini che seguono sono riproduzioni di oggetti fotografici originali delle collezioni Chiesa - Gosio.
Sono state deliberatamente riquadrate in modo che non siano visibili margini e montaggio, così che resti evidente la loro NON riproducibilità effettiva.
Fotografia abissalmente diverse appaiono qui sostanzialmente omologhe.
L'identificazione dei processi è invce impossibile senza avere l'oggetto fotografico in mano.
A titolo di esempio, si veda qui COSA è un dagherrotipo:


Nel libro «Dagherrotipia, Ambrotipia, Ferrotipia - Positivi unici e processi antichi nel ritratto fotografico» si è invece perseguito il tentativo di rendere meglio identificabili i diversi processi, rappresentando gli oggetti fotografici completi di margini, montaggio, disassemblato ed eventualmente anche sotto diverse angolazioni.
Maggiori dettagli sull'identificazione dei processi sono reperibili nella presentazione del testo cliccando qui.



Albumina - Albumen
Ambrotipia - Ambrotype
Aristotipia - Aristotype
Stampa al sale da Calotipia - Calotype
Stampa al Carbone - Carbon Print

Crystotoleum

Cianotipia - Cianotype

Dagherrotipia - Daguerreotype

Eburneum

Avoriotipia americana - Ivorytype

Opalotipia - Opalotype

Orotone

Pannotipo - Pannotype

Stampa al Palladio - Palladium Print

Ferrotipia - Tintype
Maggiori dettagli sull'identificazione dei processi sono reperibili nella presentazione del testo cliccando qui.

mercoledì 29 febbraio 2012

Gomma bicromata o bicromatata?

I processi fotografici hanno storicamente assunto una denominazione in lingua italiana seguendo una logica che non corrisponde necessariamente a ciò che è grammaticalmente giusto e corretto. Non raramente i termini tecnici si formano attraverso percorsi che sfuggono alle regole grammaticali.
Quando una terminologia si afferma, si consolida e risulta condivisa, diviene elemento linguistico di riferimento.
Per esempio la formazione del termine "dagherrotipia" è discutibile: avrebbe potuto chiamarsi daguerreotipia.
Ciò non è stato.

Per la gomma bicromata, può accadere che il termine “bicromatata”, invalso in tempi recenti, possa affermarsi, come sta facendo, in modo indiscusso.
Ciò non comporta che si possa poi automaticamente stabilire che per decenni i maestri della gomma bicromata abbiano usato il termine sbagliato perché erano ignoranti (ignoravano infatti come DOVEVA essere chiamato il procedimento).

In lingua italiana un oggetto metallico trattato in bagno galvanico al cromo si dice “cromato”. Ciò che è trattato con bicromato o dicromato è ragionevole che venga definito come “bicromatato”.
Non intendo mettere in discussione la legittimità grammaticale e chimica della formazione del neologismo.
Tuttavia il processo fotografico di cui qui si discute, come praticato per decenni, è stato abitualmente definito in passato come "gomma bicromata", che piaccia o no.
Se è maturato il tempo per considerare ciò che per decenni è stato condiviso come una corbelleria a cui è doveroso porre rimedio, non sussistono riserve ammissibili: il linguaggio è cosa viva.

Quando iniziai ad occuparmi di storia della fotografia negli anni Settanta la dizione “gomma bicromata” era impiegata senza alcuna riserva nei manuali e nei testi di storia della fotografia. Cito, uno per tutti, “Storia sociale della fotografia” di Ando Gilardi.
Tra i libri storici che parlano di questo processo vanno citati, come catalogati dall’Archivio Fotografico Toscano:
Vanni, Piero . Il processo di stampa fotografica positiva alla gomma bicromata / Pietro Vanni. - 2. ed. riv. e completata dal prof. Rodolfo Namias. - Milano : Il progresso fotografico, 1923. - 62 p., [16] p. di tav. : ill. ; 25 cm
e
Namias, Rodolfo . I processi pigmentari di stampa fotografica: carbone-bromocarbone (carbro), gomma bicromata / Rodolfo Namias. - 3. ed. riv. / per cura dell'ing. Ferdinando Todeschini. - Milano : Il Progresso fotografico, 1931. - IV, 95 p., [16] p. di tav. : ill. ; 24 cm.
Curiosamente quest’ultimo è stato catalogato più recentemente col termine “bicromatata” nel titolo. Sarebbe interessante poter verificare la copertina originale.

Non intendo sollevare inutili questioni di legittimità grammaticale. Sulla correttezza del termine “bicromatata” non ho obiezioni. Mi risulta un po’ cacofonico, ma questa è una valutazione soggettiva senza alcun rilievo.
Il nocciolo del problema che pongo non è come dovrebbe essere correttamente chiamato il processo in ossequio alle regole grammaticali. Piuttosto intendo porre la questione dell’impiego storico del termine. Ciò che è ritenuto giusto e corretto in un’epoca può essere ritenuto inappropriato in un’altra. In ogni caso, nulla impedirà di comprendere il riferimento ad un identico processo fotografico, pur usando una terminologia ritenuta poco ortodossa.

Un aspetto ancora più importante da approfondire, piuttosto che quello terminologico, è quello della tutela della salute. Il bicromato o dicromato di potassio è un sale dalle spiccate proprietà ossidanti, estremamente tossico e cancerogeno per il suo contenuto di cromo esavalente. L'inalazione di composti di cromo esavalente può produrre danni immediati, ma la sua pericolosità, come per la maggioranza delle sostanze cancerogene, si osserva in conseguenze anche molto lontane del tempo. I soggetti vittime di tumori non riescono, a distanza di molti anni, a collegare la malattia con il remoto contatto avuto con le sostanze cancerogene. Ciò rende particolarmente insidioso l’uso di sostanze chimiche che furono largamente ed incautamente impiegate in passato in ambito fotografico. È documentato per questa sostanza particolare il legame con l’insorgenza di intossicazioni croniche e carcinomi (vie aeree superiori e polmoni).

Chi si appassiona ai processi fotografici antichi può essere preso dalla tentazione di tornare a sperimentarli senza considerare la necessità di predisporre adeguate precauzioni. Gli esperimenti avventati in ambito fotografico sono spesso potenzialmente nocivi e possono rivelarsi a lungo termine devastanti per lo stato fisico di chi li compie. Sfortunatamente l’impiego di cappe aspiranti e filtranti a chiusura ermetica è ancora quasi estraneo alla pratica amatoriale.

Nel libro «Dagherrotipia, Ambrotipia, Ferrotipia. Positivi unici e processi antichi nel ritratto fotografico», in corso di pubblicazione, ho svolto qualche considerazione in relazione all’impiego del mercurio in dagherrotipia.
Le sostanze usate per la sensibilizzazione e lo sviluppo dagherrotipico sono infatti particolarmente tossiche e la loro incauta manipolazione può produrre seri danni alla salute, come purtroppo sperimentarono direttamente i pionieri della dagherrotipia. Il mercurio una sostanza neurotossica, che ha elevati effetti dannosi anche su diversi organi vitali. Operare in presenza dei suoi vapori è estremamente pericoloso perché l’inalazione provoca accumulo nel sistema nervoso centrale, producendo alterazioni permanenti, anche mentali, che si osservano solo a distanza di tempo.
 I dagherrotipisti contemporanei più accorti effettuano infatti il trattamento delle lastre al vapore di mercurio in box a tenuta ermetica e cappa aspirante filtrata, non trascurando di indossare una mascherina con filtro antigas.

Un antico detto inglese, per definire che si comporta in modo eccessivamente stravagante, usa le parole “matto come un cappellaio”. Chi non si ricorda di quello di Alice nel Paese delle Meraviglie? I cappellai del XIX secolo usavano infatti composti di mercurio per la lavorazione del feltro e ciò aveva terribili permanenti conseguenze sul loro stato mentale. Visto il rischio professionale, si sarebbe forse indifferentemente potuto usare la sentenza “matto come un dagherrotipista”.

lunedì 27 febbraio 2012

Presentazione del libro «Dagherrotipia, Ambrotipia, Ferrotipia. Positivi unici e processi antichi nel ritratto fotografico»

La presentazione del libro «Dagherrotipia, Ambrotipia, Ferrotipia. Positivi unici e processi antichi nel ritratto fotografico» avrà luogo alle ore 18 di sabato 24 marzo a Brescia, presso ImageGallery, corso Garibaldi 16. Lo spazio è quello della sala corsi di ImageGallery che può accogliere 50 persone. Pertanto è gradito un cenno di prenotazione aderendo all’evento su Facebook.

Per condividere studi ed informazioni, per ricevere aggiornamenti e partecipare attivamente in modo cooperativo allo sviluppo della cultura storico-fotografica italiana, iscriviti al gruppo FaceBook Storia della Fotografia.

lunedì 20 febbraio 2012

Dagherrotipia, Ambrotipia, Ferrotipia. Positivi unici e processi antichi nel ritratto fotografico

Questo blog, dedicato alla storia della fotografia tra il 1830 ed il 1939 ed ai processi fotografici antichi, è rimasto finora un po’ trascurato. Nato come supporto alle ricerche condotte da Gabriele Chiesa (io me, medesimo stesso, in persona ;-)) e Paolo Gosio, l’obiettivo per cui era stato creato consisteva nella trattazione di singoli casi di studio e per  sviluppare approfondimenti su specifici argomenti.
Il libro a cui ci stavamo da anni dedicando ci ha però impegnato in modo veramente intenso, senza lasciare spazio per altre iniziative. A questo si sono aggiunti eventi ed urgenze di varia natura, attività di didattiche e produzioni culturali, sempre in ambito fotografico, come www.imageacademy.it.

È finalmente giunto il tempo di riprendere le fila di un discorso appena iniziato che finora è rimasto semplicemente uno di quei “buoni proponimenti” di cui si rinvia costantemente l’applicazione pratica.

L’apertura di questa nuova fase di impegno coincide con l’imminente uscita del libro:
«Dagherrotipia, Ambrotipia, Ferrotipia. Positivi unici e processi antichi nel ritratto fotografico»

La conferenza stampa per la presentazione di questa pubblicazione è stabilita per sabato 24 marzo 2012, ore 18, presso la sede di ImageAcademy, in Corso Garibaldi 16, Brescia.

Fotografo da quando ero adolescente, dagli anni Sessanta. Ho iniziato con una Kodak Retina II a soffietto di mio padre e poi con una Eura Ferrania per pellicola in rullo 6x6. La mia avventura nei territori della storia degli antichi processi fotografici è iniziata negli anni Settanta, quando ho iniziato a leggere i primi testi di storia della fotografia. «Storia Sociale della Fotografia» di Ando Gilardi, è stato un testo che in un certo senso “mi ha cambiato la vita”. Questa lettura ha ispirato il lavoro della mia tesi di laurea su “Uso e funzione sociale dell’album di famiglia”. A quel tempo avevo iniziato una modesta attività collezionistica, limitandomi all’acquisizione delle Carte de visite di antichi studi fotografici prevalentemente bresciani.
Poi inizia a pensare che sarebbe stato bello poter avere almeno UNA dagherrotipia, UNA ferrotipia, Un’ambrotipia. Desideravo poter tenere in mano un esemplare di questi antichi processi fotografici, almeno uno per tipo. Occasioni e coincidenze fortunate mi hanno poi portato a qualche fortunata acquisizione.

Il contatto con Paolo Gosio è nato quando già avevo iniziato a scrivere di storia e di antichi processi fotografici. Paolo si occupa di matrici, di stampa e di immagini da una vita. Per lui, giungere all’attenzione ed al collezionismo per i le più antiche immagini fotografiche a positivo unico è stato un percorso naturale. Il suo stimolo è stato fondamentale: è “colpa sua” :-) se nel 2009 abbiamo pubblicato un libricino di 90 pagine pretenziosamente intitolato «Il ritratto fotografico nell’Ottocento: dagherrotipia, ambrotipia, ferrotipia». Poi abbiamo capito che non potevamo fermarci. Negli anni avevamo accumulato un patrimonio fotografico che ritengo notevole. Avevamo a disposizione un straordinaria raccolta di rari oggetti fotografici, rappresentativi di rarissimi processi fotografici ormai sconosciuti persino alla maggioranza dei curatori di fondi fotografici storici. Così ci siamo incoscientemente lasciati trascinare in un’avventura di cui ancora fatichiamo a riconoscere i contorni. Ci siamo ritrovati a riscrivere e reinterpretare momenti e scoperte fondamentali della storia della fotografia. I risultati hanno sorpreso noi stessi per primi. Abbiamo sviluppato contenuti che comportano aspetti innovativi. Ci aspettiamo che chi si occupa di storia della fotografia per attività professionale non sia immediatamente disposto ad accettare senza discussione contributi non strettamente ortodossi, ma questo fa parte del gioco e del divertimento.

I numeri non servono per dare una misura della qualità, ma danno comunque un’idea delle proporzioni dell’impegno: 367 pagine in formato A4, quasi 900 illustrazioni. Tra le proposte originali che il testo contiene ci sono:
  • un sistema di classificazione dei profili di riquadri (mat) usati nelle confezioni  in astuccio (case)
  • un sistema di classificazione dei punzoni (hallmark) usati da produttori, importatori e dagherrotipisti
  • una tavola di identificazione hallmarks con 159 punzoni (The American Daguerreotype,  il testo che finora è adottato come riferimento dai curatori dei musei di tutto il mondo ne riporta 63)
  • la proposta di nuovi specifici termini tecnici in lingua italiana, in relazioni a elementi di confezione e montaggio degli oggetti fotografici antichi
  • un approfondimento storico sui formati fotografici
  • numerosi esempi illustrati di disassemblaggio
  • nuovi dettagli di informazione storica finora mai raccolti e coordinati in italiano, oltre ad alcune novità assolute
  • criteri di riconoscimento e identificazione relativi a procedimenti fotografici antichi finora soggetti ad ambiguità di varia origine

Il libro «Dagherrotipia, Ambrotipia, Ferrotipia. Positivi unici e processi antichi nel ritratto fotografico» sarà in vendita dalla fine marzo 2012. Qui saranno inseriti i link per procedere all’acquisto o scaricare l’ebook in formato digitale.